-Redazione “GIANNI BRERA”
-“Devo perché posso”: un motto che apre la strada all’avventura–
Nel corso delle lezioni di letteratura sportiva all’Università di Verona (Dipartimento di scienze neurologiche, biomediche e motorie) ha fatto il proprio debutto l’alpinismo grazie a un intervento del direttore editoriale del CAI Alessandro Giorgetta. Un inedito che ha appassionato gli studenti al punto da innescare la realizzazione di numerose tesine a tema. Dopo quelli di Chiara Felles, che si è occupata di Kilian Jornet, di Pablo Pimazzoni e Simone Turra (Gasherbrum IV) ecco il lavoro di Alice Maria Calogero, che ha focalizzato la propria attenzione sulle imprese di Simone Moro.
di Alice Maria Calogero
“Conquistatori dell’inutile”, è così che Lionel Terray, alpinista francese, ha definito sé stesso e i suoi colleghi. Dietro a questa definizione si cela però una questione fondamentale. Cos’è veramente utile? Solo ciò che ci procura un guadagno economico? Gli alpinisti non la pensano così. Loro si lasciano guidare dal desiderio di bellezza, dal voler andare oltre, dal non lasciarsi bloccare dai propri limiti, dalla fatica e dal freddo. Quest’ultimo rappresenta una grande difficoltà soprattutto nell’alpinismo d’inverno; qui, oltre alle difficoltà date dal terreno (pareti verticali, creste strette …) o dall’ambiente stesso (alta quota, variabilità atmosferica …) si aggiungono le temperature sfavorevoli, il ghiaccio e la neve che fanno pesare piccozze, ramponi e chiodi da ghiaccio nello zaino dell’alpinista.
Un’altra domanda che sorge dall’analisi delle loro avventure riguarda la solitudine. Chi è veramente solo? Quante volte ognuno può dire di essersi sentito solo seppure in mezzo ad una folla? La natura può colmare questo vuoto presente in ogni uomo? Ma soprattutto: è un’emozione così negativa? Walter Bonatti invece la ritiene “indispensabile perché acutizza la sensibilità e amplifica le emozioni”.
Bergamo però non ha dato luce solo a questa forte personalità ma anche a Simone Moro che, come lui, ha dimostrato di avere una grande passione e gratuità per quello che fa.
“Devo perché posso”, è questo il suo motto di vita. “Spesso nella vita ci costruiamo degli alibi: non sono ricco, non ho raccomandazioni, non ho l’età. Io invece penso che ogni giorno ci si debba mettere in cammino per raggiungere i propri obiettivi. Poi non sempre si ottiene il risultato, io stesso riesco a portare a termine una spedizione su tre.”
Il carattere dell’alpinista bergamasco è ben riassunto in questa sua citazione. In una sua recente intervista alla radio ha affermato di essere partito da un sogno, da delle intenzioni e, a partire da ciò, ha costruito un progetto. Il sogno nasce fin da bambino, a soli 13 anni inizia ad arrampicare nelle montagne vicine alla sua città natale per poi scoprire le Dolomiti.
A vent’anni inizia a praticare l’arrampicata sportiva mentre nel 1990 parte per il servizio militare. Inizia con sei mesi da allievo per poi diventare sottotenente degli Alpini.Terminato il servizio torna a dedicarsi all’arrampicata in veste di allenatore dopo aver frequentato un corso. Nel 1992 inizia ad esplorare le montagne dell’Himalaya.
Nella sua carriera Moro raggiunge quattro volte l’Everest e arriva in vetta più volte sugli ottomila metri. E’ noto per le quote raggiunte e per i suoi tempi ma, come lui stesso dichiara, “la montagna non è un nemico umano”. Perciò l’obiettivo non è sempre raggiunto e non si fa sempre ritorno. Un’esperienza molto nota e significativa è il suo tentativo sull’Annapurna. Nel primo fallimento una valanga portò via i suoi compagni Dimitri Sobolev e Anatolij Bukreev mentre il secondo fu dettato dalle sue condizioni di salute. “Su tanti fallimenti ho costruito dei successi” afferma tuttavia Moro. Egli stesso racconta di aver cambiato il suo focus dal “cosa” (record, vette, quote…) al “come”, concentrandosi sull’essenza dell’alpinismo, sul suo rapporto con la natura, con le montagne, con il freddo. Proprio da questo amore per il freddo nascerà il suo desiderio di recarsi nel luogo più freddo del mondo (‘Siberia -71°’).
“Più è bella la montagna più è difficile” ci assicura il sognatore. Tuttavia in più di un’occasione dimostra di restare con i piedi per terra aspettando le condizioni adatte e senza voler sfidare la natura. “Ho imparato a perdere, la montagna è una grande maestra” afferma Moro dimostrando di non essere uno sprovveduto ma di sapere quali sono i suoi limiti e quanto sia importante avere la giusta preparazione (tema affrontato anche da Burkeev in ‘Everest 1996’).
Altro aspetto molto importante di questa figura è il suo altruismo. E’ sorprendente scoprire questo rapporto di fratellanza tra gli alpinisti, pronti a rinunciare al proprio progetto (per esempio il concatenamento del Lhotse e dell’Everest) per salvare un collega appartenente ad un’altra spedizione. Un esempio è l’operazione di salvataggio, in solitaria e in notturna, per andare a recuperare Tom Moores. Questa missione verrà ricompensata, oltre che con la vita di entrambi, con la medaglia d’oro al valor civile nel 2002 nonostante il fallimento del suo iniziale obiettivo.
Nel 2003 Simone si laurea in scienze motorie all’Università di Bergamo con 110 e lode con una tesi sull’alpinismo ad altitudini estreme.
Il 14 gennaio 2005, con il polacco Piotr Morawski, effettua la prima ascensione invernale dello Shisha Pangma, 8027 m.
Il 1º agosto 2008, in compagnia dell’alpinista valdostano Hervé Barmasse, effettua la prima ascensione della cima Sud del Beka Brakai Chhok, montagna del Karakorum (Pakistan) alta 6810 m, dopo gli infruttuosi tentativi effettuati da spedizioni inglesi e neozelandesi.
Il 9 febbraio 2009, insieme a Denis Urubko, realizza la prima salita invernale del Makalu, 8463 m, uno dei sei ottomila ancora inviolati in inverno. La salita è effettuata in puro stile alpino e, in ragione della stagione, in condizioni avverse: vento a oltre 100 km/h e temperature fino a -40 gradi con 3000 metri di dislivello da superare a partire dal campo base avanzato (5400 m).
Il 2 febbraio 2011, sempre insieme a Denis Urubko e allo statunitense Cory Richards, realizza la prima salita invernale del Gasherbrum II, 8035 m. La salita rappresenta anche la prima invernale di un 8000 del Karakorum. Con questa ascensione, inoltre, Moro diventa l’unico alpinista insieme ai polacchi Krzysztof Wielicki e Jerzy Kukuczka ad aver salito tre ottomila in prima invernale assoluta. Durante la discesa dal campo 1 al campo base, i tre alpinisti vengono travolti da una valanga sotto il Gasherbrum V. All’arrivo di quest’ultima i tre si siedono aspettando di essere travolti, per cercare di restare a galla, nuotando nella neve e senza respirare per evitare di inalare la polvere di ghiaccio. Moro riesce a liberarsi per primo e raggiunge ed estrae dalla neve i due compagni, riusciti a tenere fuori dalla neve solamente la testa. Sopravvissuti senza ferite rilevanti, rientrano al campo base.
Nell’inverno 2011-2012 tenta insieme a Denis Urubko la prima ascensione invernale del Nanga Parbat, tentando inoltre l’apertura di una nuova via. È costretto a rinunciare a causa del maltempo persistente e della gran quantità di neve fresca depositatasi sulla montagna.
Nella primavera del 2012 progetta nuovamente di concatenare la salita dell’Everest e del Lhotse, sempre senza l’uso di ossigeno, ma vi rinuncia il 23 maggio a causa dell’eccessivo affollamento della montagna. C’erano infatti oltre 200 persone sulla via, il che la rendeva estremamente pericolosa. Nella primavera 2013 è di nuovo sull’Everest per tentare la salita di una nuova via, tuttavia il gruppo viene coinvolto in un’aggressione da parte di alcune decine di sherpa durante uno dei primi giorni di salita. Minacciati, sospendono la spedizione fuggendo nell’oscurità verso il campo base.
Nell’inverno 2013-2014 tenta nuovamente la scalata invernale del Nanga Parbat, desistendo a 6500 metri di quota dopo tre tentativi, effettuati in parte collaborando con una spedizione di polacchi.
Nell’inverno 2014-2015, a causa delle abbondanti nevicate, rinuncia al progetto di concatenamento Manaslu (8163 m) vetta principale – Pinnacolo Est (7992 m), tentativo effettuato con Tamara Lunger.
Nell’inverno 2015-2016, dopo i tentativi falliti degli anni precedenti, torna al Nanga Parbat, inizialmente dichiarando di voler fare una salita in stile alpino e senza comunicare, per recuperare il senso di esplorazione; poi, cedendo ai timori che la via Messner fosse troppo pericolosa, cambia piano, e si aggrega alla spedizione Txikon-Sadpara-Nardi, ma quest’ultimo viene poi escluso dalla spedizione; riesce questa volta a realizzare la prima salita invernale il 26 febbraio insieme allo spagnolo Alex Txikon, e al pakistano Ali Sadpara. Il quarto componente della spedizione, l’italiana Tamara Lunger, si ferma invece a soli 70 metri sotto la vetta, esausta.
A gennaio 2020, durante l’ascensione al Gasherbrum I con Tamara Lunger, finisce in un crepaccio a testa in giù per venti metri, tuttavia, nonostante numerose contusioni, riesce a risalire e a mettersi in salvo.
Per concludere, come dice Filippo Zolezzi, “zaino in spalla e scarponi ai piedi forse riusciremo a leggere il libro più bello…”