di Alessandra Rutili
Giocare per vincere è questo il senso che spinge grandi e bambini a mettersi in gioco.
L’idea di essere più forti, più bravi, più qualsiasi cosa dell’avversario. I tifosi non sfuggono a questa logica. Anzi.
Ci sono i tifosi diretti; genitori, nonni, allenatori e dirigenti che vedono nella vittoria la realizzazione dei propri desideri, delle proprie proiezioni.
Ci sono i tifosi indiretti, quelli che scelgono quella disciplina e quella squadra, e se ne innamorano per sempre.
In entrambi i casi, la capacità di giudizio viene messa a dura prova da un elemento fondamentale; la passione.
La cronaca degli ultimi mesi ha riproposto un problema che nessuno ha mai voluto risolvere, la violenza legata al mondo del calcio.
Un mondo, quello del pallone, che sembra essere in balia degli ultras.
Bande organizzate, armate, che si danno appuntamento prima dell’inizio della partita per affrontarsi come su un ring.
Uomini, non più bambini, che assumono il ruolo di leader, di capi. Rivendicano, probabilmente, un ruolo che nella vita quotidiana nessuno mai gli riconoscerebbe e che impongono con la violenza. Il branco, invece, rimane fedele. Il branco segue le indicazione di chi ha dimostrato di essere più forte. Salvo poi spaventarsi quando la situazione sfugge di mano, muore un amico, e la giustizia fa il suo corso.
La squadra del cuore diventa solo un medium attraverso il quale riconoscersi e farsi riconoscere. Il mezzo da contrapporre all’altro. Non interessano i risultati, i progetti delle società conta solo essere individuati dal branco come capi. Un fenomeno quello della violenza negli stadi a lungo dibattuto, forse non nelle sedi opportune visto che ancora oggi rappresenta un problema.
La politica ha molte colpe. Ha attinto dalle curve volti e voti. Quando poi succede un fatto grave che mette a nudo tutte le mancanze del sistema tutti iniziano a proporre soluzioni. Non da ultimo convocare una tavola alla quale hanno partecipato tutti tranne i rappresentanti delle tifoserie organizzate, il lato pulito del calcio.
Sembra assurdo ma le famiglie che vanno allo stadio con i propri figli interessano meno.
Tante le proposte; spostare gli orari degli incontri, chiudere le curve, vietare le trasferte. Nulla di risolutivo. Anzi, decisioni che condannano la maggioranza dei supporter rispetto alla minoranza dei facinorosi.
Bisognerebbe invece avere il coraggio di dire che i violenti non hanno nulla a che fare con lo sport e che il problema è di carattere educativo. Bisognerebbe che l’esempio partisse dall’alto. Dai Presidenti che non dovrebbero permettersi di insultare arbitri, insinuando chissà quali combine; dai giocatori che, pur sapendo di essere osannati dai giovani si permettono di avere atteggiamenti violenti dentro e fuori dal campo. Ed ancora gli allenatori dei settori giovanili, spesso non preparati a formare i ragazzi, prima che gli atleti. I genitori, infine, che credendo di avere il futuro Cristiano Ronaldo, esasperando i figli ad emergere ad ogni costo.
La stampa, poi dovrebbe dare più spazio agli esempi positivi, ai gesti di lealtà e di rispetto dell’avversario. Ma modificare un modello educativo costa tempo e fatica. Il mondo del calcio potrebbe prendere spunto dai cugini del rugby. Sport, nato peraltro in un contesto universitario. Il rugby, attività dove il contatto e lo scontro fisico è fondamentale, fonda le proprie radici sul rispetto dell’avversario. Dopo la mischia, tutti a fare il Terzo Tempo. Il momento post partita, diventa occasione di confronto, momento di convivialità. Impensabile per gli amanti del pallone che fanno della faziosità sportiva il principale argomento di discussione.
Che non sia allora il caso di ignorare i violenti isolandoli? Ciò che conta è non darla loro vinta. Non raccontiamo più delle loro “imprese”. Ignoriamoli. O ancor meglio irridiamoli. Occupiamo il nostro tempo a spiegare ai ragazzi che senza l’avversario nulla sarebbe possibile, nemmeno il gioco.
“Educa i bambini e non sarà necessario punire gli adulti” “, non diceva già così il filosofo e matematico greco Pitagora già nel V secolo a.C.?
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