–Redazione “GIANNI BRERA”
–di Sara Perin-
“The fierce five” a Londra 2012, “The final five” a Rio 2016: due squadre per un totale di 8 diverse ginnaste che hanno conquistato tutti i podi nella ginnastica artistica nei due quadrienni olimpici in questione, culminando con la vittoria di squadra nella rispettiva finale olimpica e anche in quella individuale, nel 2012 con Gabby Douglas e nel 2016 con Simone Biles (che tornerà protagonista anche a Tokyo 2021). Ma qual è il segreto del successo? Come hanno fatto queste atlete a diventare campionesse? Come si sente una ragazza come Simone Blies ad essere definita la più forte ginnasta di tutti i tempi?
Nei loro profili sui social, pieni di foto in cui sorridono e si allenano, e nelle loro vite abbastanza normali per essere campionesse olimpiche, fatte di amicizie, famiglia e vacanze, si nasconde un incubo che nessuno, guardando le foto in alto in cui sono sul tetto del mondo, potrebbe immaginare: 7 su 8 di queste ragazze sono state abusate sessualmente dal medico della nazionale olimpica di ginnastica artistica Larry Nassar, che ad oggi è in carcere con una pena che non riuscirà a scontare in vita: dopo le Olimpiadi di Rio, quando le ragazze hanno cominciato a condividere le loro storie, più di 100 altre ragazze (all’epoca dei fatti minorenni) hanno cominciato ad accusarlo, in modo che, come dichiarò Aly Raisman in aula «ora, noi, questo gruppo di donne che hai maltrattato senza cuore per un così lungo periodo di tempo, sono una forza, e tu non sei nulla”, mettendo una fine a questa orribile vicenda.
Una fine apparente, però. Come è stato possibile che la vicenda durasse così a lungo e che così tante ragazze abbiano dovuto subire questo trauma? Chi lo sapeva? Chi avrebbe dovuto saperlo? Per le ginnaste coinvolte la vicenda non si ferma con la condanna di Nassar, perché sono convinte che lui non sia l’unico colpevole: McKayla Maroney, infatti, ha presentato una causa contro il Comitato Olimpico degli Stati Uniti (USOC) e la USA Gymnastics con l’accusa di aver nascosto i casi di abusi di Nassar tramite la firma di un accordo confidenziale da non divulgare in cambio di 1,25 milioni di dollari di risarcimento, ed è stata prontamente sostenuta nelle accuse dalle compagne Raisman e Biles, le quali inondano i loro social e i loro interventi pubblici di domande e di riflessioni sul fatto, sperando che venga fatta giustizia.
Dopo il licenziamento di Steve Penny, ex CEO di USAG, il cambio di responsabile tecnico della nazionale statunitense, da Martha Karolyi a Valeri Lukin e poi a Tom Forster, e il conseguente abbandono del ranch dei Karolyi come luogo di ritiro della nazionale (dove sono avvenuti gran parte degli abusi), sembra che la volontà del comitato olimpico statunitense sia quella di girare pagina e di concentrarsi sulle prossime Olimpiadi, ma tutte le ragazze coinvolte sembrano decise a portare avanti la loro battaglia ad ogni costo, finché tutti i colpevoli non saranno identificati e processati. Quindi.. cosa si nasconde dietro ai sorrisi delle ragazze sul podio? Che cosa gli è servito per diventare campionesse olimpiche? Alla luce di questa vicenda, la risposta non è così semplice ma, al contrario, si pensa: ne è valsa la pena?
Come molte delle ragazze hanno dichiarato, durante la loro carriera sportiva hanno pensato che ciò fosse una parte del prezzo da pagare, che tutti i silenzi, le rinunce e in questo caso gli abusi, fossero una parte del loro percorso verso le Olimpiadi. Il messaggio che veniva trasmesso loro nei ritiri della nazionale era quello di obbedire, di fare sacrifici e che se davvero volevano raggiungere il loro sogno, avrebbero dovuto sopportare qualsiasi cosa e resistere, diventare più forti per poi trionfare indossando un body a stelle e strisce.
Chi non ha mai vissuto l’esperienza dello sport d’élite, forse non può capire come ciò possa essere successo e come queste ginnaste abbiano potuto mettere il loro sogno davanti a tutto, anche davanti alla loro salute; ma dentro un contesto del genere, in cui le persone di cui ti fidi ti dicono che stai facendo la cosa giusta e in cui le tue amiche fanno lo stesso, sei portato a credere che quello sia l’unico modo, che non c’è un’altra strada percorribile, ma che quella è la tua unica possibilità e, forse, è meglio non buttarla via. In un’intervista Valorie Kondos Field, allenatrice del team femminile di UCLA di cui oggi fanno parte Kyla Ross (Olimpiadi del 2012) e Madison Kocian (Olimpiadi del 2016), ha dichiarato che “qualsiasi volta si mettano le vittorie e le medaglie al di sopra delle persone, si aprirà la propria associazione ad un processo di corruzione che si propagherà come una malattia”.
Quando un giovane atleta si trova catapultato in un ambiente agonistico, in cui sacrificio e vittoria sono gli unici ideali consentiti, perde il suo contatto con la realtà e si immerge in una spirale da cui è difficile uscire: finché il mondo dello sport agonistico sarà governato dal vincere ad ogni costo, dalla non tolleranza degli errori e dall’eliminazione delle emozioni, tutto ciò continuerà ad accadere. Gli atleti devono essere considerati come persone, animate da sentimenti, impulsi e emozioni, non come macchine a cui non è concesso il minimo errore: gli deve essere insegnato come apprezzare il valore del loro sogno, tra gli alti e i bassi, e non come mettere a tacere i loro pensieri più puri, dimenticandosi di essere umani prima di essere atleti; la ricerca della perfezione del gesto atletico non si deve confondere con la ricerca della perfezione umana, per sua natura irraggiungibile. Prima o poi verrà fatta chiarezza anche in questa terribile vicenda, ma fino a quel giorno possiamo solo chiederci: ne vale la pena? Da quali valori sono governati gli ambienti dello sport agonistico odierno? Quanto può valere una medaglia?
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